Accanto alla ben conosciuta Philosophy for children di Matthew Lipman, infatti, si sono negli anni aggiunti il metodo delle “domande fondamentali” di Oscar Brenifier e, ancora, la proposta di Walter Omar Kohan. All’interno di Infanzia e Filosofia, che raccoglie sei scritti di Kohan e un’intervista che il filosofo ha rilasciato alla curatrice del libro Chiara Chiapperini, la proposta kohaniana di filosofia con i bambini si presenta come fortemente ametodica. L’ametodicità, oltre alla considerazione della filosofia quale attività di pensiero strutturalmente libera da vincoli costrittivi, si lega in Kohan a motivazioni politiche, sociali, ideologiche, che se da un lato presentano le istanze e i bisogni dei bambini e dell’infanzia, al contempo si fanno carico dei bisogni delle “minoranze” del mondo, facendo di tale proposta filosofica il supporto teorico ideale per determinare il capovolgimento del modo in cui pensiamo e guardiamo al mondo.
La prospettiva da capovolgere è legata proprio allo sguardo dall’alto verso il basso, lo sguardo dell’adulto sul bambino, lo sguardo di chi già sa (il maestro) su chi si suppone ancora non sappia (l’alunno), ma anche lo sguardo di chi ha il potere su chi non lo ha. Il ribaltamento dello “sguardo” può avvenire, secondo Kohan, proprio a partire dall’incontro tra filosofia e infanzia, un incontro nel quale la prima si presenta come attività che «dà luogo al pensare aperto, libero e autotrasformatore, la filosofia diventa motore e propulsore dell’infanzia» (p. 18), mentre l’infanzia si apre alla filosofia solo se diviene «immagine della discontinuità, di ciò che non può essere inscritto dentro la logica del prestabilito. Nell’infanzia campeggiano possibilità, libertà, creazione. Una potenza e una forza creativa, anche tutto ciò è infanzia. Partendo da questa concezione, l’incontro tra filosofia e infanzia dà luogo non solo all’educazione dell’infanzia ma anche all’educazione della filosofia» (p. 12).
Queste affermazioni scaturiscono da una profonda analisi critica che Kohan fa dell’educazione e della dinamica insegnamento/apprendimento, che pretende di formare gli infanti e che si è sempre caratterizzata seguendo due vie: «una afferma che l’infanzia è l’età della non ragione, in cui non c’è ancora una sufficiente capacità di pensare. L’altra “insegna” all’infanzia a pensare, insegnandole in realtà a pensare in un modo già consolidato ciò che si deve pensare» (p. 12). Entrambe le modalità sono accomunate, però, dalla negazione del pensiero all’infanzia.
Kohan, inoltre, ci mette in guardia dai rischi in cui si può incorrere praticando la “filosofia con i bambini”: il “romanticismo” insito nell’accostamento di infanzia e filosofia che «prende forma in frasi come “i bambini sono naturalmente filosofi” o “i filosofi sono come bambini che fanno domande”. Si pretende (...) nel quadro di una visione astratta e naturalizzata della filosofia e dell’infanzia, che l’universale “bambino” e l’universale “filosofia” siano naturalmente affini e si avvicinino naturalmente»; il secondo rischio è rappresentato dalla “mercantilizzazione” della filosofia con i bambini che Kohan collega alla logica del capitalismo, per la quale tutto ha un prezzo: «nemmeno la filosofia con i bambini è immune dal rischio di (...) trasformarsi in qualcosa che sia oggetto di domanda e offerta, (...) che si usi come strategia di marketing, che si venda come prodotto in grado di differenziare un’istituzione dalle altre. Particolarmente nel caso delle scuole, la filosofia con i bambini si può configurare quale risorsa per aumentare la capacitàdi attrazione agli occhi dei suoi potenziali clienti» (pp. xxi); infine il “dogmatismo”, cioè la tentazione di «usare la filosofia come strumento di catechesi» (p. x) per conseguire un determinato obiettivo, per affermare determinati valori, anche giusti, ma che ci vengono “offerti” come indiscutibili.
Kohan delinea le possibilità di affrontare o prevenire tali rischi partendo proprio dal pensiero: “disapprendere” ciò che si sa e aprirsi a ciò che non si sa, difendere uno spazio pubblico della filosofia e del pensiero per consentire agli altri di pervenire ad un pensiero proprio. Queste le sfide che Kohan propone di intraprendere per contrastare i tre rischi sopra elencati, sottolineando, con il filosofo Jacques Rancière, che «il “pensare” è al tempo stesso un atto politico (...) il pensare serve, è interessante quando rende visibile qualcosa che non era visibile, quando ci permette di renderci conto che qualcosa esiste a nostra insaputa» (p. xiii).
L’interesse di Kohan per il “pensiero infantile”, punto di partenza imprescindibile di un modo nuovo di pensare il mondo, matura attraverso un iter formativo, teorico e pratico, iniziato mentre il filosofo si trovava all’Università di Buenos Aires in qualitàdi “profesor asistente” di filosofia greca, attività, per stessa ammissione di Kohan, oramai divenuta «endogamica, chiusa in questo mondo seducente (...) che suole essere la tipica Facoltà di Lettere e Filosofia» (p. viii), e portato avanti nell’area della Philosophy for children di Matthew Lipman.
E' con lo stesso Lipman che Kohan conclude un dottorato sull’argomento, ma è proprio a partire dalla P4C che il filosofo elabora un nuovo modo di intendere la filosofia con i bambini: «credo che si debba fare una distinzione piuttosto netta: una cosa è l’idea geniale di portare la filosofia ai bambini, e in questo Lipman è stato un pioniere, l’iniziatore di un mondo. Altra cosa, differente, è il modo specifico in cui Lipman ha pensato l’insieme, il curriculum (...). Io mi sono sentito sempre molto vicino all’idea geniale di Lipman e ogni volta un po’più distante dal modo specifico in cui egli concepisce la sua teoria e la sua metodologia» (pp. viii-ix).
Kohan sembra, quindi, trovare inefficaci i modelli teorico-pratici di “fare filosofia” come “educazione al pensiero” e in questo caso il distacco da Lipman è oramai acclarato. L’unica logica utile allo sviluppo del pensiero è per Kohan «la logica dell’esperienza e non di qualcosa di determinato “da applicare”, una sorta di porta aperta allo spazio filosofico che (… ) mettesse ogni volta nella condizione di pensare come se fosse la prima volta» (p. xv). Egli si esprime, quindi, contro una “concezione tecnica del pensiero” esemplato in quella distinzione tra abilità (skills) ed esperienza. Nell’esperienza si attiva il pensare filosofico, configurato come “viaggio del pensiero” che, se di regole ha bisogno, sono quelle date proprio dalla filosofia, «una serie di “dimensioni” o “forze” che la filosofia afferma, connotazioni che le danno un tono, tracciati che le imprimono un ritmo» (p. xiv). Di certo mai un metodo, un programma, un percorso tracciato, un supporto determinato.
In effetti, si ha l’impressione che il “modello Lipman”, al di là delle giuste critiche di Kohan, fornisca un utile metodo di “educazione al pensiero” ma porti a filosofare “a partire da” e “all’interno di” una metodologia. Ciò agevola soprattutto chi ha attitudine filosofica, ma per chi non ha tale “dono”, per chi in effetti ha bisogno della “stampella” metodologica, è utile uno “strumento rigido” che gli “insegni a pensare”? Non si corre il rischio, piuttosto, di fornirgli un supporto da cui non potrà più prescindere? In questo modo ogni volta che si sta praticando P4C si penserà di fare filosofia ma in realtà si starà semplicemente applicando un utile strumento didattico.
Sebbene questa nostra critica si leghi all’impostazione di Kohan è però il caso di dire come nell’opera del pensatore argentino, essa non raggiunga una tale esplicitezza e la polemica abbia poco spazio: «in filosofia non credo si debba distinguere tra pratiche buone e pratiche cattive, né piùo meno ortodosse, nécredo che sia interessante erigersi in guardiani morali o politici di ciò che fanno gli altri. Al contrario, credo che valga la pena di distinguere le pratiche che sono interessanti, che ispirano, che danno una sensazione di benessere, che danno forza alle trasformazioni» (p. xix).
Le pratiche “trasformanti” non debbono portare solo al benessere degli individui o ad una migliore qualità dei rapporti tra gli esseri umani. In Kohan vi è anche la preoccupazione per un mondo “migliore” collegata strettamente al senso stesso del filosofare e al progetto filosofico che da tempo il pensatore porta avanti nelle scuole: Filosofia na Escola. Calato nel contesto sociale e istituzionale del Brasile, esso rappresenta il manifesto filosofico, e politico, di Kohan: «non mi interessa una pratica filosofica che sia elitaria, indifferente o funzionale al consolidamento delle disuguaglianza sociali. (...) Filosofia na Escola, va in controtendenza rispetto a tali orientamenti: cerca di opporsi alle politiche pubbliche neoliberiste che imperano in America Latina e al tipo di organizzazione sociale che quelle politiche consolidano ed estendono. Fare Filosofia na Escola suppone ed esige che si affermi che un altro mondo è possibile. Con ciò non si punta a duplicare il mondo o proporre un’utopia che lo trascenda. Al contrario, il solo fatto di pensare controcorrente è già affermazione di un altro mondo. Dal pensiero nasce un altro mondo: non un mondo ideale, ma un mondo nel quale giàci poniamo in modo diverso» (p. 35).
Kohan, infatti, nell’accostare tra loro i termini “pensiero” ed “infantile”, non intende con il termine “infantile” solo il riferimento ai bambini quali depositari di una particolare tipologia di pensiero, bensì intende «il termine “infanzia” in modo più ampio rispetto all’accezione usuale di “tappa o fase della vita”, il pensiero infantile non designerebbe solamente il pensiero degli infanti, ma ogni pensiero che marchi una nascita, un inizio, una creazione, una imprevedibilità, una interruzione, un situarsi nel mondo come se fosse sempre la prima volta» (pp. 3-4).
Forte, a nostro parere, il richiamo a Bloche al suo concetto di utopia. Letto alla luce del pensiero blochiano il progetto di Filosofia na Escola fa dell’educazione all’infanzia il fondamento su cui costruire/trasformare il mondo: «educare l’infanzia è importante perché i bambini di oggi saranno gli adulti di domani (...), educare l’infanzia è la migliore e più solida maniera di introdurre cambiamenti e trasformazioni sociali. L’infanzia viene intesa nella prima istanza come potenzialità e, in questo senso, come la materia prima delle utopie, dei sogni politici dei filosofi e degli educatori».
L’utopia di Kohan è realizzabile a patto che, nel rapporto con gli altri e con il mondo, non ci si lasci guidare da verità che altri hanno cercato per noi ma da verità costruite insieme. Ciò vale, soprattutto, nell’insegnamento/apprendimento della filosofia quale “esercizio” del pensiero. Nel rapporto insegnante/allievo (e nelle relazioni in genere) non sono utili le gerarchie intellettuali perché «solo se siamo intellettualmente uguali possiamo avere un’esperienza di apprendimento e insegnamento in grado di trasformare tutti i partecipanti» (p. 13). Nel merito, il richiamo filosofico di Kohan è Deleuze, quando afferma che nulla si può apprendere «da chi ci dice “fai come me” (...) unici maestri sono quelli che ci dicono “fallo con me”» (p. 13), coloro cioè che ignorano “dove” l’allievo (o l’altro) voglia giungere, preoccupandosi, invece, di aiutarlo a realizzare la propria ricerca.
Sulla dinamica che implica la necessità di effettuare la “propria ricerca”, e contro buona parte della tradizione filosofica, si innesta l’interessante analisi critica che Kohan conduce sul maestro filosofico per eccellenza, Socrate. Criticando proprio l’immagine di Socrate che si presenta quale “maestro ignorante”, Kohan invita ad analizzare attentamente il metodo socratico sostenendo che «Socrate non sembra un caso di insegnante solidale, cooperativo, non totalitario. Per esempio nel Menone “aiuta” a partorire le conoscenze matematiche che lo schiavo già possiede. Lo schiavo, partendo dalla perplessità alla quale lo conduce Socrate, impara un contenuto nuovo che in qualche modo già possedeva sebbene non lo ricordasse. Tuttavia non impara da solo questa conoscenza, né impara ad imparare senza qualcuno che lo conduca per mano, come fa Socrate, per sapere ciò che deve sapere. Non c’è creazione, né incompletezza nell’apprendimento. Lo schiavo può soltanto imparare ciò che Socrate già sa, e questo sapere socratico misurerà il valore di qualunque sapere che lo schiavo riuscirà a produrre. Socrate sa in anticipo ciò che lo schiavo in qualsiasi modo dovrà arrivare a sapere. Non c’è nemmeno solidarietà o cooperazione tra uguali: lo schiavo non solo non impara a cercare da sé, ma (...) impara anche che senza il maestro non potrebbe cercare nulla da se stesso» (p. 28). A parere di Kohan «Socrate non favorisce l’esperienza del sapere o del pensare bensì l’esperienza di una frustante ignoranza che permette di pensare solo ciò che il maestro ha già pensato» (p. 14).
Il riferimento al “maestro ignorante”, nella filosofia di Kohan, è consapevolmente critico e non nega, infatti, gli aspetti costruttivi della figura di Socrate. La critica intende lanciare «una provocazione al filosofare, a un’educazione orientata alla feconditàe alla nascita costanti, congiunte sempre presenti; un’educazione che mai smetta di creare filosofe e filosofi, Socrate e non Socrate: una filosofia incompleta, cooperativa, incerta, aperta come l’esperienza» (p. 33).
Il filosofo argentino ha strutturato la propria pratica filosofica con i bambini anche su un presupposto di tipo politico che non consiste nel “formare l’infanzia” sulla base di principi politici, filosofici, educativi già strutturati dalla prospettiva “adulta”.
Kohan sostiene infatti che si educa sempre «a partire da principi politici e con finalità politiche. Nella nostra azione affermiamo valori di uguaglianza, giustizia, libertà, (...) Ci adoperiamo per avere cura dell’altro, per ascoltarlo, per stimolare la partecipazione di tutti (...); apprezziamo le differenze, stimoliamo la creatività. Non siamo né neutri né apolitici. Niente di tutto ciò» (p. 40). Nonostante i nostri sforzi, nonostante il nostro comportarsi secondo leggi democratiche, in ogni caso veicoliamo un mondo già dato.
Nella visione kohaniana, spostando il fulcro di interesse sull’infanzia, salta via proprio il già dato, filosofando a partire dall’infanzia accade il miracolo della scoperta: «la forma politica delle nostre valutazioni e delle nostre finalità rimane aperta: come deve essere il mondo non lo sappiamo. (...) le nostre principali motivazioni nel fare filosofia con i bambini consistono nel disporre le nostre istituzioni, sensibilità e idee in modo che l’infanzia possa pensare nella maniera più libera, più complessa e più aperta possibile la forma da dare al suo stare nel mondo» (p. 40).
Questa concezione della filosofia, aperta e fortemente orientata all’eliminazione delle differenze, è alimentata in Kohan oltre che dalla pratica teoretica e dall’interesse pedagogico, anche dall’interesse per le idee politiche del subcomandante Marcos.
Ispiratore di questo pensiero è per lui il movimento zapatista, che rappresenta un nuovo modo di pensare, una nuova politica su cui strutturare una nuova educazione: «gli zapatisti non sanno come deve essere il mondo perché saperlo implicherebbe negare le altre voci che è necessario ascoltare affinché questo mondo sia per davvero un mondo plurale e non un mondo (...) in cui una sola voce si impone in forma monocorde e onnipresente» (p. 42).
Pur aprendo, in alcune sue parti, scenari ideologico-rivoluzionari che a volte paiono retorici, in realtà, nel pensiero di Kohan gli elementi politici arricchiscono, combinandosi al pensiero di grandi filosofi, una riflessione che si traduce in una pratica, che pur traendo spunti dalla P4C, elabora in chiave nuova la prospettiva del dialogo e del pensiero, sganciando entrambi dalla gabbia del metodo, per giungere in un luogo in cui, per fortuna, ognuno, direbbe Kohan, ha l’obbligo di fare la propria esperienza.
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