Quando si accosta via lettera a Manzoni nel 1843, Giuseppe Giusti cerca un riconoscimento al valore, un’investitura ufficiale, una patente di poeta, un battesimo letterario. L’autore dei Promessi sposi lo saluta come una neonata stella nel firmamento della poesia italiana, usando un’immagine («veder nascere una gloria italiana») che è uno sbilanciarsi veramente degno di nota nel misurato e composto lessico manzoniano della sobrietà e della onestà, senza incantesimi e funambolismi verbali formali o d’occasione.
Ma l’autore dei Promessi sposi indica anche due gravi colpe, ai suoi occhi: «in quelle poesie che, da una parte, amo e ammiro tanto, deploro amaramente ciò che tocca la religione, o che è satira personale». Quelle di Giusti sono un’arguzia sottile e una scrittura efficace – per di più in una lingua toscana né troppo dotta né troppo popolare – che Manzoni vedrebbe volentieri arruolate tra i sostenitori della utilità sociale della morale cattolica.
Invece no: malinconici e sornioni, i versi di Giusti insistono proprio sulla tendenza umana a piegare ideali e ideologie – religiosi o politici che siano – ipocritamente al proprio tornaconto; sull’ideale calato e programmaticamente contraddetto nel reale, non sull’ideale che potrebbe o dovrebbe arginare il male nel reale.
Nell’acceso bisogno di moralità da cui sono nati, molti personaggi della satira di Giusti sono oggi purtroppo di estrema attualità; ma sono maschere umane atemporali – vero campionario antropologico delle peggiori ombre dei costumi nazionali – non sottovuoto, in cui l’universalità si accompagna alla storicità. La satira di Giusti non trascende, storicizza: un punto di distanza da Manzoni, un’altra idea di letteratura.
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