In concomitanza con il rilancio della politica coloniale da parte del regime fascista, dalla prima metà degli anni Venti in Italia aumentò il numero delle testate periodiche che si ponevano l’obiettivo specifico di accrescere le conoscenze coloniali dei propri lettori. Pur raggiungendo un pubblico che il regime giudicò sempre insufficiente, questo genere di pubblicazioni, nate in diversi casi per iniziativa privata ma più spesso edite da enti di cultura semi-pubblici o da strutture ministeriali, contribuirono alla creazione del discorso ufficiale del fascismo attorno all’espansionismo africano. Sulle pagine delle riviste gli elementi di – spesso pretesa – scientificità si intrecciavano con quelli più marcatamente propagandistici, fornendo idee, immagini, argomenti e interpretazioni che poi sarebbero stati ripresi e rimodellati nel discorso pubblico più ampio.
La stampa periodica di argomento coloniale si trovava così a svolgere due funzioni cruciali all’interno del progetto fascista: da una parte sosteneva la “politica di potenza” rilanciata dal governo; dall’altra, attraverso la narrazione e l’esaltazione della impresa imperiale della nazione, contribuiva al proposito del regime di mobilitare attorno alle parole d’ordine del fascismo il popolo italiano, e di inculcargli nuovi valori. A causa di questo ruolo, le testate furono sottoposte al rigido controllo da parte del governo, che dall’inizio degli anni Venti sino alla seconda guerra mondiale intervenne a più riprese imponendo chiusure, fusioni, o sollecitando nuove pubblicazioni, nel tentativo di dare forma a una macchina centralizzata capace di incanalare il lavoro di giornalisti e studiosi e di produrre un discorso coloniale unico e univoco.
Basandosi su fonti archivistiche e sulle stesse riviste, il volume ripercorre la storia dell’editoria coloniale mettendola in relazione con la storia del colonialismo fascista, per ricostruire i nessi tra politica culturale, politica coloniale e progetto totalitario.
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