I l filosofo e il tiranno ha un duplice intento: chiarire attraverso un’analisi storiograficamente puntuale dei Quaderni neri la dimensione strutturale del nazionalsocialismo e dell’antisemitismo di Heidegger; ricostruire, a partire dall’affaire-Heidegger ciclicamente ricorrente, l’inclinazione della filosofia occidentale verso la tirannide che ne ha segnato l’atto di nascita fin da Platone. La “deformazione professionale” denunciata da Hannah Arendt come tratto costitutivo della pratica del filosofare, che ha spinto non solo i filosofi, ma più in generale gli intellettuali, a proporsi come educatori dei tiranni (o consiglieri del principe), ha nutrito il “cuore di tenebra” del Novecento. Per autori come Alexander Kojève e Leo Strauss i regimi totalitari contemporanei sono stati l’esperienza storica per antonomasia – positiva per l’uno, catastrofica per il secondo – attraverso la cui comprensione mettere alla prova l’antica categoria della tirannide come paradigma politico. Se intendiamo la tirannide come riduzione dei molti all’Uno, essa è l’altra faccia della democrazia dei moderni. La grande scoperta filosofica di Arendt è che l’ontologia della libertà vive della tensione permanente tra stabilità delle istituzioni e ri-fondazione del patto sociale nello spazio pubblico-politico, in cui sempre nuovi attori culturali e movimenti politici si affacciano sulla scena del mondo. Se questa tensione si spegne, la tirannide, comunque la si voglia rinominare, diviene il destino ineluttabile del nostro tempo.
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