Questo libro rilegge l’opera di Max Ophuls (1902-1957) alla luce della tensione tra attrazione e racconto e, più in generale, dell’idea di stile e di narrazione classica come dinamica tra norma e trasgressione. Da una parte ilcinema come attrazione deve cercare di divertire, di affascinare; ma deve anche raccontare storie avvincenti e dipingere mondi diegetici verosimili.Tutto il cinema ophulsiano sta in questa continua ricerca di equilibrio che approda spesso a un eccesso di visione, quando l’attrazione sopravanza sulla storia e in parte la cancella. E proprio perché pone l’accento su di essol’eccesso finisce per porre il gesto di vedere come problema. I movimenti di macchina sofisticati, le figure dell’enunciazione, le diverse tipologie di attrazioneci portano a riflettere su quello che vediamo e perciò a non darlo più per scontato. Per questo quella ophulsiana è un’immagine opaca: si offre allo sguardo dello spettatore con uno splendore che sfiora l’arroganza ma, mentreci lascia guardare, smantella la nostra illusione di onnipotenza perché ci mostra anche i propri limiti. L’attrazione non smonta la trama; il lavoro dell’attore non fa scomparire il personaggio; il narratore o il movimento di macchina non cancellano il flusso del racconto; ma tutti insieme ci dicono che dobbiamo stare al nostro posto e interrogarci sul nostro guardare, perché in fondo è quella la sola cosa che possiamo vedere.
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