Nell’Adelchi, ma soprattutto nella narrazione dell’intensa dolorosità della vicenda dello sfortunato principe longobardo, prevale, come del resto risulta abbastanza facile arguire, una riflessione amara e tragica sul senso della vita, proprio come se Manzoni ignorasse, quasi di colpo, che esiste un’alternativa concreta alla legge del taglione, alla cinica, irreversibile successione di sorti che caratterizza buona parte della storia umana.
In altre parole, è come se all’umanità presente ed operante in quest’opera venisse negata, in qualche modo, la capacità di agire autonomamente, di progettare liberamente la propria esistenza, senza dover subire, puntualmente, i severi attacchi d’una sorte che non perdona, e che sembra divertirsi (se non ad accanirsi) nel dispiegare con estrema disinvoltura la propria, ingiustificata crudeltà ed il proprio accanimento su delle vittime innocenti.
In un passo rimasto celebre dell’opera in oggetto, e siamo nell’atto quinto, così Adelchi si rivolge al padre Desiderio, ed è proprio da questi versi che emerge, per librarsi in tutta quanta la sua sconfinata grandezza, la riflessione elegiaca che Manzoni, ancora assai vicino alla visione giansenistica della vita e dell’agire, mette in bocca ad un giovane che, avviato su una strada di grandezza e di gloria, è poi costretto d’un sol colpo ad accettare il dinorevole profilarsi di un miserevole destino. Godi che re non sei, godi che chiusa / All’oprar t’è ogni via: loco a gentile / Ad innocente opra non v’è: non resta / Che far torto, o patirlo. Una feroce / Forza il mondo possiede, e fa nomarsi / Dritto;…
Ma solo un attimo prima, il giovane aveva gridato all’anziano padre tutta la saggezza maturata in così brevi anni, ma tanto solida da creare sgomento abnche nell’astuta e ben temprata calvizie di un uomo che, come Desiderio, di sicuro non aveva mai ignorato, o finto d’ignorare, che Gran segreto è la vita, e nol comprende Che l’ora estrema.
Ed ecco perché il dialogo tra Anfrido e Adelchi, ovvero una delle pagine più liriche che il Manzoni abbia lasciato, ribadisce, ancora una volta, la dolorosità della condizione di Adelchi ma, nel contempo, ne sottolinea l’eroicità con la quale egli stesso accetta, vive e rende proficuo ogni dolore.
Ed è nelle vibranti e toccanti parole sgorgate dal cuore del giovane, intrepido Anfrido, ( Alto infelice / Reale amico! Il tuofedel t’ammira, / E ti compiange. Toglierti la tua / Splendida cura non poss’io, ma posso / Teco sentirla almeno ), che vien fuori tutta la rilevanza epico-lirica e lirico-drammatica dello sventurato fratello della ripudiata Ermengarda.
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