Il ritmo ha qualcosa di magico; ci fa persino credere che il sublime ci appartenga.
Johann Wolfgang Goethe
Seguire un ritmo e muoversi insieme ad esso è, per l’essere umano, un comportamento naturale e apparentemente semplice.
In realtà il riconoscimento della struttura temporale di un brano musicale, costituita da ritmo, pulsazione, tempo, metro, coinvolge dinamiche e sistemi neuronali altamente sofisticati, individuati dalle neuroscienze grazie alle metodiche di indagine attualmente disponibili.
Durante l’ascolto della musica una parte dell’attività elettrica cerebrale si sincronizza con la componente ritmica, attivando processi di previsione e orientamento dell’attenzione: si capisce e si sente il ritmo perché si è capaci di prevedere ciò che deve ancora avvenire e di creare aspettative in base alle quali organizzare l’attività cognitiva e guidare l’azione.
Ma questo processo non è circoscritto alla fruizione musicale, esso si innesca ogni volta che nell’ambiente vi sono riferimenti periodici che indirizzano la performance cognitiva. Simili meccanismi sono stati sviluppati non certo per godere della musica o danzare in gruppo, privilegi tutt’altro che trascurabili, ma per riuscire a sopravvivere in un ambiente ostile, pieno di pericoli e imprevisti.
Nel susseguirsi apparentemente caotico di eventi, infatti, capire le regole che sottostanno al loro verificarsi, individuare dei criteri con cui organizzare l’esperienza percettiva, è una strategia necessaria a creare ordine e senso.
Dallo studio delle caratteristiche funzionali del cervello ritmico nasce l’ipotesi che utilizzare il ritmo in ambito sia educativo che riabilitativo possa contribuire a sviluppare o ripristinare le capacità di analisi della dimensione temporale la cui alterazione può essere all’origine di disordini del movimento, del linguaggio e delle funzioni cognitive.
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