Pubblicato da Oswald Spengler nel 1922, ossia nel pieno della crisi post-bellica della Repubblica di Weimar, il secondo volume di Der Untergang des Abendlandes, subito definito sulla «Frankfurter Zeitung» “l’opera atea di un tempo ateo”, include un lungo capitolo, intitolato Problemi della civiltà araba, che risulta decisivo per una effettiva comprensione della concezione morfologico-discontinuista che della storia mondiale Spengler propone nei due volumi del suo opus magnum. Individuando nell’inizio dell’era cristiana tanto la nascita di una nuova civiltà, quella “magico-araba”, quanto il tramonto del mondo antico, animicamente esaurito con la crisi della res publica romana e l’avvento del “cesarismo”, Spengler intende dimostrare come anche la civiltà occidentale-faustiana, sorta in Europa all’inizio del secondo millennio d.C., sia destinata, una volta conclusosi il suo millenario ciclo vitale, ad un inevitabile, “cesaristico” tramonto. Tale posizione di pensiero avrebbe determinato, fra i tanti, l’intervento dello storico antichista Eduard Meyer, che in una lunga e densa recensione doveva mettere a fuoco tanto gli innegabili pregi, quanto gli evidenti limiti di un’opera destinata, in ogni caso, ad alimentare una considerazione “entropica” delle civiltà che caratterizzano la storia mondiale, al di là della quale, tuttavia, si staglierebbero le “inesauribili” e “ricche” possibilità del Cristianesimo, di una religione, quella di Gesù, che sembra non essere toccata dal destino che domina nel mondo storico, tanto che Spengler allude ad un “terzo Cristianesimo” che, dopo il primo della civiltà magico-araba e il secondo di quella occidentale-faustiana, dovrebbe presentarsi in futuro sotto l’aspetto di una nuova, problematica civiltà “russa”.
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